di Gigliola Alfaro
“Aiutateci ad aiutare i nostri ragazzi”: è uno degli appelli lanciati da Luciano Squillaci, presidente della Fict (Federazione italiana comunità terapeutiche), che ripetutamente sta chiedendo attenzione per queste realtà, che si trovano a vivere grandi difficoltà nell’emergenza legata al Covid-19. Squillaci chiede tamponi per operatori e ragazzi che chiedono di entrare in comunità, come pure dispositivi di protezione individuale per chi già ci vive. Abbiamo raccolto la sua testimonianza e quella di chi sta in comunità, dove con la paura crescono anche la consapevolezza del valore della vita e la responsabilità verso gli altri.
“Noi abbiamo due grandi preoccupazioni e quindi altrettante richieste per il Governo, le Regioni e gli enti locali. La prima riguarda l’emergenza:
temiamo che il virus possa entrare all’interno delle nostre comunità e questo sarebbe un dramma.
C’è poi una preoccupazione per il futuro: che ne sarà di un sistema che già oggi è estremamente fragile e con una debolezza economica strutturale? Noi, assieme ad altre reti, abbiamo già proposto al Governo un documento di emendamento del cosiddetto ‘Decreto Salva Italia’ chiedendo delle misure specifiche per il nostro settore”.
Stiamo gestendo una situazione di stress e di grande tensione:
hanno paura gli operatori, hanno paura i ragazzi per se stessi e per i parenti con cui sono in contatto. Alcuni di loro hanno saputo di familiari deceduti o genitori ricoverati con polmonite in ospedale. Cerchiamo, malgrado tutto, di trasmettere fiducia”.
Abbiamo paura che i familiari dei ragazzi si ammalino e abbiamo il dovere di affiancare i nostri ospiti in questi momenti drammatici. Proseguiamo le attività terapeutiche previste dal programma per i sani. Quelli malati hanno un loro spazio, lontano dai compagni, ma vogliamo che sentano la nostra vicinanza e cura pur mantenendo le distanze”.
Sapere che qui non mi posso sentire completamente al sicuro mi fa vivere con forte preoccupazione,
ma l’affetto che mi circonda quotidianamente mi aiuta ad affrontare questa ennesima prova”, afferma Nicola.
Ora ho imparato che le cose importanti sono poche: la vita, gli affetti. Spero di non dimenticarlo in futuro”,
dichiara Francesco, da sei mesi in comunità.
La preoccupazione corre da Nord a Sud. Franco Lo Priore, operatore della Casa sulla Roccia di Avellino, spiega: “Abbiamo sospeso le uscite legate a fini terapeutici e le visite di familiari, volontari, ragazzi del servizio civile. L’accesso alla struttura è possibile sono per operatori forniti di dispositivi di protezione individuale. Alcuni utenti inizialmente hanno considerato troppo rigide le nostre regole, ma noi abbiamo agito per la tutela della loro salute. Abbiamo chiuso alcuni dei nostri servizi diurni per evitare che il contagio venisse da fuori”. L’operatore evidenzia: “Tutti i nostri ragazzi fanno un’enorme fatica e chiedono spesso agli operatori di essere sostenuti e rimotivati. La pandemia, però, sta consentendo loro di comprendere quanto la vita vada protetta. Paradossalmente l’isolamento ha attivato l’assunzione di responsabilità nel prendere decisioni che impattano non solo sulla propria vita ma anche su quella della collettività.
Hanno superato l’aspetto egoistico proprio del dipendente, interiorizzando l’altruismo e l’attenzione al prossimo”.
“Mi trovo qui per un problema di sostanze che mi stavano distruggendo la vita e gli affetti. Poco più di un mese fa mi trovavo a Brescia, ma non ce la facevo più con quello stile di vita e ho deciso di tornare a casa e chiedere aiuto. Prima di entrare in comunità ho fatto il tampone. Adesso, però, non entra più nessuno. Io sono fortunato perché
qui è bello stare insieme e farsi forza l’un l’altro.
Sto iniziando a condividere i miei pensieri, le mie emozioni, i miei sentimenti con i miei compagni di percorsi, cosa inusuale nel mondo fuori, dove si inseguivano cose inutili”, ammette Stefano, 32 anni, di Avellino.
Quello che sta avvenendo mi fa pensare a quanto ci sia di superfluo nella vita e a quanta poca importanza si è data finora alle relazioni, all’amore di una figlia, di un genitore, di un fratello”,
sostiene Sofia, da circa otto mesi nella Casa sulla Roccia.
Anna Borghi, presidente del Centro Le Ali di Caserta, sottolinea che i ragazzi in comunità “stanno imparando cosa significa ‘qui ed ora’, cosa significa ‘responsabilità’, cosa significa ‘guardarsi allo specchio e riconoscersi uomini’ senza piagnistei e pietismi, imparando ad affrancarsi dalla posizione di vittimismo. Noi operatori chiediamo loro poche cose: accontentarsi, condividere le difficoltà, cercare le risorse per far sì che il ‘loro stare insieme’ abbia un senso. Chiediamo poco, perché questo è solo il vivere di tutti giorni e loro stanno scoprendo, attraverso l’esperienza, quanto siano lontani i loro giochi, così pericolosi, che li hanno portati a non credere nel valore della vita”. I giovani del Centro Le Ali stanno preparando i pasti per l’Associazione “L’Angelo degli ultimi”, che sostiene persone indigenti e, soprattutto, senza dimora.
“Tu solo puoi farcela ma non da solo”
lo slogan che i ragazzi hanno voluto dare all’iniziativa.






