di Ugo Bellesi
Un tempo nelle nostre campagne i matrimoni non si celebravano a primavera e neanche d’estate (quando i lavori dei campi erano troppo faticosi) ma in autunno. Infatti c’è anche un proverbio che dice: «Ecco arrivata alfine quella data in cui l’uva diventa dolce e saporita e fa portare a casa la donna amata», cioè la sposa. Secondo tradizione, il primo dolce che doveva arrivare alla sposa era quello del curato. E non poteva essere che la focaccia di farro (già nota come rituale nelle nozze dei romani). La ricetta è semplice: si fa bollire il farro nel latte, poi si passa allo staccio e se ne fa una crema da condire con zucchero e spezie. Si cuoce al forno finché non compaia una crosta dorata. Come è noto però la celebrazione delle nozze era preceduta dalla cerimonia della stima della dote della sposa. Concluso questo rito, il corredo veniva trasferito, per mezzo di un biroccio trainato dai buoi, dalla casa della sposa a quella dello sposo e qui si festeggiava con libagioni di vino novello accompagnate da un dolce che oggi è tradizione di tutte le Marche: il ciambellone.
L’autunno è anche la stagione della caccia. Nelle nostre campagne si attendeva soprattutto il “passo” delle palombe, uno dei volatili più apprezzato dai cacciatori che poi si riunivano nelle trattorie per gustarle allo spiedo con salvia e rosmarino dopo averle lardellate e “pilottate”.
La tradizione ci porta poi alla ricorrenza del 2 novembre, giorno della Commemorazione dei defunti. I bambini lo attendevano con ansia perché potevano gustar castagne lesse o arrostite. Gli adulti invece le gustavano in modo diverso. Dopo averle lessate o arrostite, le castagne si sbucciavano e si mettevano su un largo piatto di porcellana. Quindi si cospargevano do zucchero e si bagnavano con alcool puro o cognac ma anche rum, dandogli poi fuoco con un fiammifero. Quando la fiamma si spegneva le castagne potevano essere consumate subito calde. Le famiglie benestanti e le parrocchie più ricche, il 2 novembre distribuivano ai poveri il cosiddetto “pane dei morti” confezionato con farina di granturco. E c’era anche una tradizione secondo la quale chi mangiava fichi freschi nella ricorrenza dei defunti non avrebbe sofferto il freddo ai piedi per tutto l’anno.
A Camerino il 2 novembre era tradizione preparare il pane nociato, fatto con pasta di pane, olio, noci tritate e pepe, uva passa, zucchero e pezzetti di cedro. A Macerata invece il pane nociato si confezionava a forma di pagnottine (con pasta di pane, olio, noci tritate e pepe) che poi venivano ricoperte di zucchero. A Penna San Giovanni al posto del pane nociato si faceva la pizza con le noci.
L’11 novembre era un giorno molto temuto dai contadini, perché il padrone del terreno da loro coltivato poteva decidere di rompere il contratto e concederlo a un’altra famiglia. Il mezzadro allora doveva trovarsi un altro terreno e un altro padrone, ma se non li trovava era la fame per lui e per i suoi cari. Nel giorno di San Martino, appunto l’11 novembre, a Matelica e nei paesi circostanti era tradizione confezionare il “pane del cacciatore”. Era una ricetta di origine umbra di cui però a Matelica si è persa la memoria tanto che non compare in nessun ricettario dei nostri giorni. Era un dolcetto preparato soltanto con farina, uova, cacao e granella di nocciole. Attualmente in Umbria il pane del cacciatore è confezionato con farina, uova, zucchero, amido di frumento, lievito, aromi naturali, margarina, gocce di cioccolato fondente e granella di nocciole.
