ZARIFA GHAFARI
Nasce a Kabul nel 1992, frequenta la Halima Khazan High School, dopo gli studi superiori si Laurea in India. Nel 2018, a soli 24 anni, è eletta sindaco (una delle poche donne in Afganistan) di Maidanshahr una città tradizionalista. Il giuramento come sindaco avverrà solo nel marzo 2019 per varie vicende. A partire dal suo primo giorno da sindaco, ha affrontato molestie, intimidazioni e proteste sistemiche da parte di un gruppo di uomini che hanno assalito il suo ufficio intimandole di dimettersi dalla carica con minacce di morte da parte dei talebani e dell’ISIS. Racconterà che tra gli episodi che le sono rimasti più impressi ci sono le volte in cui entrava nel suo ufficio e tutti gli altri uscivano, così come le occasioni in cui è arrivata e ha trovato la porta chiusa a chiave, dovendo rompere la serratura per entrare. Ma la giovane ha continuato a presentarsi ogni singolo giorno, ed è stata sindaco per due anni e mezzo. «Più mi ignoravano, più diventavo forte; più mi rifiutavano, più diventavo forte; più vedevo come mi ridicolizzavano per il mio sesso, più diventavo forte. Era come dire: Ve la farò vedere io, perché qualunque cosa io abbia nella mia testa, è uguale a voi». Un atteggiamento intraprendente di chi, consapevole dei rischi e dei pregiudizi, non ha mai smesso di lottare per quello in cui credeva. «Sono stata in grado di mostrare il potere e la capacità delle donne, di dimostrare che possiamo fare qualsiasi cosa. È diventata un modello da seguire per altre donne. È sopravvissuta anche a diversi tentativi di omicidio. Suo padre verrà ucciso il 5 novembre 2020 e lei dichiarò: «Sono i talebani. Non mi vogliono a Maidanshar. Ecco perché hanno ucciso mio padre». Il 15 agosto 2021, dopo la caduta di Kabul in mano ai talebani, disse: «Sono seduta qui ad aspettare che arrivino. Non c’è nessuno che aiuti me o la mia famiglia. Sto sola seduta con loro e mio marito. E verranno per le persone come me e mi uccideranno». Con una fuga rocambolesca riuscirà a fuggire da Kabul, nell’agosto 2021, con la madre, cinque sorelle minori e il marito. Dopo Istambul si trasferisce in Germania dove dall’esilio continua la sua lotta. Dura la sua critica verso l’Occidente «Non credo che l’Occidente sia stato leale con le donne del mio Paese. Erano state coinvolte nel futuro dell’Afghanistan, poi sono state abbandonate». Nel febbraio 2022 è tornata a Kabul dove apre un centro di assistenza per donne e bambini e trova un paese impoverito e terrorizzato, Dirà: «La mia vita è sempre stata a rischio, e l’Afghanistan è il mio Paese. Ho un solo passaporto e una sola nazionalità. Nella mia terra si consuma una terribile crisi umanitaria. In Afghanistan decine di donne giacciono in prigione, decine sono scomparse o uccise e nessuno ne parla. Quando l’Occidente parla di diritti umani, penso: perché non il mio popolo, le mie donne, il mio Paese? Sì, mi sento abbandonata. E chiedo che l’Occidente faccia almeno quanto fa in supporto al popolo e agli attivisti iraniani. Il silenzio dell’Occidente rende i talebani più forti, li mette nella condizione di reprimere perché sanno che non ci saranno reazioni». Continua tenacemente a lottare per la prossima generazione. «Voglio che mia figlia non mi biasimi per non aver fatto abbastanza. Voglio che possa vivere in Afghanistan godendo interamente dei suoi diritti, come un maschio, come io non ho potuto fare. Ha ricevuto riconoscimenti per i suoi sforzi nell’emancipazione femminile e nell’affermazione dei diritti delle donne in Afghanistan.»

LAURA BIANCHINI
Laura nasce in una famiglia di condizioni modeste nel 1903 per cui fin da giovanissima è costretta a cercarsi un lavoro. Continua studiare da autodidatta, si diploma maestra e poi riuscirà anche a laurearsi in Lettere nel 1932. Inizia a insegnare a Brescia, prima come maestra, poi come docente di storia e filosofia per poi diventare preside dell’Istituto Magistrale. La scuola era la sua passione tanto che collaborò con la casa editrice cattolica La Scuola, pubblicando vari saggi su altre riviste sempre a carattere pedagogico e didattico. Continuava intanto il suo impegno nel cristianesimo sociale: negli anni universitari fece parte della Fuci (Federazione Universitaria Cattolica Italiana) e del Movimento Laureati. Qualche anno più tardi assumerà la carica di presidente, che manterrà per sette anni, del ramo femminile della Fuci, coordinata a livello nazionale da monsignor Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI, nonché da Maria de Unterrichter, un’altra delle future costituenti. Fu proprio in questo contesto che sviluppò il suo antifascismo, che la portò poi a un impegno militante nella lotta per la Resistenza. Dopo l’8 settembre, la sua casa fu sede delle prime riunioni di esponenti militari e politici dell’antifascismo bresciano. In quella casa vi installò anche una tipografia di fortuna per redigere il giornale «Brescia libera». In uno dei suoi articoli, si rivolgeva agli insegnanti scrivendo “Voi avete la responsabilità gravissima di averci illusi, Voi che tacevate, che sopportavate, che non avete mai trovato il coraggio di dire a noi, giovani inesperti, la parola della verità”. Esortava gli insegnanti a non prestare giuramento al governo della Repubblica Sociale Italiana: “Se giurate, non siete educatori di anime, siete dei corruttori del costume”. Divenuta sospetta alla polizia fascista, si trasferì a Milano dove intensificò l’attività con le formazioni partigiane cattoliche, occupandosi dell’organizzazione dei soccorsi ai detenuti politici, dirigendo l’ufficio assistenza alle famiglie dei partigiani caduti. Si dedicò al soccorso dei perseguitati politici e degli ebrei, che aiutava a raggiungere la Svizzera mettendo spesso a repentaglio la sua stessa vita. Diventò poi staffetta partigiana agli ordini di Enrico Mattei. Intervenne spesso, con vari pseudonimi sulla stampa clandestina, con scritti dove emerge la sua formazione filosofica. In particolare si rifaceva al pensiero del filosofo e pedagogista Jacques Maritain e al personalismo cristiano, che pone al centro dell’ordine sociale la persona. Una volta finita la guerra, Laura continuò il suo impegno politico partecipando ai gruppi vicini a Giuseppe Dossetti svolgendo un ruolo di primo piano nell’organizzazione delle associazioni femminili cattoliche. Nel 1946 fu eletta alla Costituente. A Roma vive nella casa delle sorelle Portoghesi dove si incontrava con Dossetti, La Pira e Angela Gotelli. All’Assemblea Costituente i suoi contributi si legarono soprattutto ai problemi della donna e della scuola, di cui era una profonda conoscitrice e di non restare vincolati all’ideale di una scuola finalizzata solo alla cultura, dando invece il giusto spazio anche alla formazione professionale. Nel 1948 entrò in Parlamento come deputata nella corrente dei Cristiano sociali di Giuseppe Dossetti. Dal 1953 Bianchini uscì dalla vita parlamentare tornando alla sua prima vocazione, l’insegnamento, che esercitò fino al 1973 sulla cattedra di storia e filosofia presso il Liceo Classico Virgilio a Roma dove morì nel 1983. Figura dalle mille sfaccettature: fine intellettuale, giornalista militante, politica, parlamentare, educatrice e insegnante.
